18.9.12

Prisma e dopo



Prisma di Nina che c'era.
Prisma di Nina c'è.

Ero a un tavolo d'osteria giorni fa. Tovaglia verde, vassoi bianchi, bottiglie a ricoprire fino allo sguardo al di là della tavola, candele sul finto davanzale, ché fuori pioveva e pareva sera, e invece no. Dalla porta aperta vedevi tutto l'acquazzone che si raccoglieva nella tenda estiva e cadeva giù pesante, quando decideva.
Mia madre alla mia destra parlava e si muoveva verso noi altri; indossava una camicia blu a pois fitti, ancora smanicata, ché fuori pioveva, ma non importa, è fine estate e ci proviamo fino a quando punge la pelle.
Io, come un gatto dentro una stanza che fissa un punto ipnotizzato, guardavo la collana che seguiva le spalle e il petto carenato di mia madre. Stava lì a fluire, con quelle perle sfaccettate di rosso granato, grosse come confetti, che riflettevano la luce. Parevo una gazza ladra che cerca di cogliere qualcos'altro, come se ci fosse una risposta in quel movimento osmotico accanto a me - ogni tanto capita di trovare nelle cose piccine delle domande che non t'eri fatta.

[Ogni pensiero è un esilio, un esile io che si sposta]  

E insomma la cosa bella era avvertire chiara la differenza di superficie. Voglio dire, se mia madre avesse indossato una collana di perle lisce, senza sfaccettature, la luce avrebbe colpito un solo punto, riflesso una sola luce. In un modo perfetto, senza sbavature, quella - sola - luce piena, fissa. Probabilmente del lampadario del ristorante, il più evidente e più alto di tutti. E tutte le perle a guardare da una parte sola, come un coro rivolto verso un solo direttore d'orchestra, come un grido in un'unica direzione, uno, solo, netto.


Invece no. I cristalli di granato riflettevano a destra e a manca, su e giù, la luce del soffitto e quella del piatto, quella a est del cristallo del bicchiere e a ovest dei miei occhi mentre guardavo, a sud-est della posata rovesciata, a nord-ovest dell'orologio del vicino, e tutto il resto che neanche vedevo.

Erano mille occhi e mille forme, fruscianti di luce a ogni movimento del petto di mia madre. Vive.

E ho pensato che così deve essere, non desiderare di rendere liscio ciò che molteplice è. Un'instabilità di luce che ritrae tutto, in quel momento, in quel luogo, addosso a quel cuore, quel petto così fatto.

Ché fin la più piccola luce viva lì dentro non si perde, una parte di te la raccoglie, e la mostra su di sé, come le facce di una pietra brillante.

Non vorrei essere una perla d'ostrica, per quanto perfetta e preziosa, mi pare chiaro. Preferisco un prisma. E vorrei dei prismi accanto a me, nella collana in cui sono, a parlare di tutte le luci e di tutte le ombre che ci costruiscono. E tra prismi non riesco nemmeno ad immaginare le luci coraggiose e nascoste che possono essere raccontate.


Era un pensiero volante, era un esilio, un esile io che mi calma e mi spiega tutto quello che non so.








14.9.12

Dimmi che cosa vedi tu da lì


Ricordo che, quand’ero nella casa
della mia mamma, in mezzo alla pianura,
avevo una finestra che guardava
sui prati; in fondo, l’argine boscoso
nascondeva il Ticino e, ancor più in fondo,
c’era una striscia scura di colline.
Io allora non avevo visto il mare
che una sol volta, ma ne conservavo
un’aspra nostalgia da innamorata.
Verso sera fissavo l’orizzonte;
socchiudevo un po’ gli occhi; accarezzavo
i contorni e i colori tra le ciglia:
e la striscia dei colli si spianava,
tremula, azzurra: a me pareva il mare
e mi piaceva più del mare vero.


 (Antonia Pozzi - Milano, 24 aprile 1929)




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