Non bisognerebbe mai lasciare Nina da sola per troppo tempo, ma neanche per poco.
Qualcosa va sempre più veloce però là fuori, mentre qui dentro occorre sentire lo scandire dei secondi, dei minuti e, a volte, lusso e spericolatezza, pure delle ore.
È tana negli alberi (vedere con chiarezza, prima che fosse chiaro / e udire ogni voce, prima che risonasse), sempre.
Forse questo tempo necessario fisicamente arriva quando comincia a far freddo, quando senti casa, quando la guardi la tua casa, e quelle cose che sai che non devono andar veloci le lasci qui, come segnale per il tuo presente.
Da settimane mi (in)segue una poesia di Rilke, su
Orfeo ed Euridice.
Fin da piccola è sempre stato il mio mito preferito, non sapevo bene perché, così tragico, così pulsante, così invano. Li ho sempre immaginati bellissimi tutti e due, Orfeo ed Euridice, mortali più che mai, mi erano come familiari.
Averla scoperta solo adesso - e mi dà affanno ogni volta che leggo, perché sono loro, perché funziona così - mi spiace, come aver mancato a un appuntamento, ma forse neanche tanto perché ora la capisco.
E poi più che una poesia pare una lunga strada, di estraniamento che tu sai così assurdo e concreto assieme, li senti i passi e i sassi, la radice e la morte sospesa, e il fiatone di chi il fiato ancora ce l'ha, e magari ogni volta ci speri, giuro che ci speri che la fine cambi, che lui non si volti, magari lui stavolta avrà fede e non si volterà.
Orfeo. Euridice. Ermes
(di Rainer Maria Rilke - trad. di Gilberto Forti)
Era l'arcana miniera delle anime.
Esse per quella tenebra vagavano,
mute vene d'argento. Tra radici
sgorgava il sangue che affluisce agli uomini,
e greve come porfido sembrava
in quel buio. Di rosso altro non v'era.
V'erano rocce,
boschi spettrali. Ponti sopra il vuoto
e quello stagno grande, grigio, cieco
che incombeva sul suo letto remoto
come cielo piovoso su un paesaggio.
E la striscia dell'unico sentiero,
scialba tra prati, facile e paziente,
pareva lino steso a imbiancare.
Per quell'unica via i tre venivano.
Primo, nel manto azzurro, l'uomo snello,
muto e impaziente, gli occhi tesi avanti.
Il suo passo ingoiava il sentiero
a grandi morsi, senza masticare;
dalle pieghe cadenti gli pendevano
le mani, grevi e serrate, ormai
dimentiche di quella lieve lira
che sulla sua sinistra era cresciuta
come tralci di rosa sull'ulivo.
E i suoi sensi sembravano divisi:
l'occhio correva avanti come un cane,
si voltava, tornava e ripartiva
e aspettava lontano, a ogni curva,
ma l'udito indugiava come l'odore.
Talvolta a lui pareva che intralciasse
il passo agli altri due che dovevano
seguirlo su per tutta la salita.
Allora dietro solo l'eco
dei suoi passi e il vento nel mantello.
Ma diceva a se stesso che venivano,
e a voce alta, e udiva il suono spegnersi.
Sì, venivano infatti, ma entrambi
avevano il piede troppo lieve.
Se si fosse voltato (e non poteva,
poichè un solo sguardo frantumava
tutta l'impresa da portare a termine),
li avrebbe visti, i due dal piede lieve,
camminare in silenzio alle sue spalle:
il dio del moto e dell'ampio messaggio,
con il casco sugli occhi luminosi,
l'agile verga tesa innanzi al corpo,
le ali oscillanti intorno alle caviglie;
e nella sua sinistra, in pegno, lei.
Lei, tanto amata che una sola lira
levò lamento più che mai le prefiche;
e sorse un mondo di lamento in cui
tutto ricompariva: bosco e valle,
strada e paese, campo e fiume e bestie;
e intorno a questo mondo di lamento,
così come intorno all'altra terra,
un sole si volgeva, e tutto un cielo
pieno di stelle, silenzioso, un cielo
di lamento con stelle sfigurate:
lei, tanto amata.
Ma, tenuta per mano da quel dio,
con il passo frenato dalle lunghe
bende funebri, ella camminava
incerta, mite e senza impazienza.
Raccolta in sè e come trasognata,
non pensava a colui che le era innanzi,
nè alla strada su verso la vita.
Era raccolta in sè, e la impregnava
il suo stato di morte.
Se un frutto è pegno di dolcezza e d'ombra,
quella sua grande morte colmava,
così nuova che nulla lei coglieva.
A una verginità nuova era giunta,
e intangibile; il suo sesso era chiuso
come un giovane fiore verso sera,
e le sue mani così disavezze
alla vita nuziale che persino
il contatto di quell'esile dio
tanto lieve e gentile nel condurla,
la turbava per troppa confidenza.
Ormai non era quella donna bionda
che si udiva nei canti del poeta,
non più il profumo e l'isola del talamo,
né più era il possesso dell'uomo.
Era già sciolta come una lunga chioma
e già dispersa come pioggia in terra,
e diversa come retaggio in cento.
Ella era già radice.
E quando all'improvviso
il dio la fermò e con dolore
pronunciò le parole: Si è voltato!-,
lei non comprese e disse piano: Chi?
Ma lassù, scuro sull'uscita chiara,
stava qualcuno, irriconoscibile.
Stava e guardava un tratto del sentiero
in mezzo ai prati ove il dio del messaggio
si voltava in silenzio, mesto in viso,
e si avviava a seguire la figura
che già ripercorreva quel sentiero,
con il passo frenato dalle bende,
incerta, mite e senza impazienza.
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