Pensavo oggi che il riso abbonda sulla bocca di Nina.
In più sensi e per svariate ragioni, tanto che potrebbe ricondurre la sua vita - almeno fino ad ora - a una Fenomenologia del Risotto (cfr.
Fenomenologia del Passato).
Un po' per amore (potere del riso di assorbire nutrienti e ingredienti e spezie e acqua e aroma e mescolìo e non lasciarlo andare, e prendere colore, il colore che dici tu, il sapore che dici tu, è un passaggio, è una concessione, sembra quasi una tela, un'osmosi terrena), un po' per dovere (così salubre per lei, lui privo di glutine), un po' per senso metaforico (dev'essere
ad onda, lui cresce nell'acqua, è riso-sorriso, son chicchi come gocce di pioggia narranti e attente, e
li lanci in aria per festeggiare, e così via).
Allora ho pensato ai miei anni divisi per risotto. Facciamone otto, per ora.
C'era il tempo della mensa dell'asilo, in cui Nina non mangiava quasi nulla, però c'era il
riso rosso che facevano, quello col sugo, che un po' acidino era, che le piaceva e la faceva fantasticare. Lo allargava tutto quanto sul piatto, così non scottava, ci scriveva con la forchetta e immaginava fosse una pizza margherita. Bianco lo amava come lo faceva la mamma a casa,
al latte, che sembrava una crema, era dolcino, ed era una magia poter mangiare una cosa che pensavi dolce a una pensata solo salata, e mia madre una maga (capiamoci, a 4 anni dovevi ancora e ancora affinare gusto ed estetica, e io non ero un talento, è probabile).
Però di quelle magie mi piaceva conoscer le regole; e pian piano quei pochi intrugli che provavo a far a casa e sentirmi una donnina e far una cosa sopraffina, seguendo la ricetta e senza aiuti, era prova di grandezza. Ricordo il
risotto "brusciato" di anni dopo, preso da un vecchio ricettario bianco a quadretti, che ora è giallo invecchiato, quello con certe immagini che, ad oggi, con la rete piena dei più vividi foodblog terracquei esistenti, ti viene da dire ma-come-ci-pensavano-a-fare-foto-così? Ultrasature ultraunte ultracariche, marroni, l'acquolina al massimo veniva al gatto. Però quella foto del risotto
brusciato me la ricordo perché era rosso e saporito, si vedeva, e metteva insieme un sacco di ingredienti dentro che, sempre a causa del giudizio-ancora-da maturare, io credevo più ingredienti = più gusto. Ovviamente lo testai 13enne con ospiti a pranzo, e il sapore era buono, tipo di caciocavallo affumicato, ma il fondo della pentola era davvero bruciato e idem si dica per l'aria della cucina. Da lì cominciò l'eterna ricerca del risotto perfetto.
A Bordeaux, nei miei mesi francesi, alla famiglia ospitante preparai un pranzo all'italiana, in cui il
risotto al radicchio a me caro, già visto preparar tante volte dal mio
guru del risotto, lo credevo un cavallo da battaglia, dimenticando nell'euforia la delicatezza che necessita, e il pericolo
pappone nonché il pericolo insalata-di-riso sempre dietro l'angolo. Destino volle che la famiglia bordolese decise all'ultimo di invitar amici e parenti, e mi trovai seduti al tavolo 8 persone in più frementi e affamate a far il tifo: "Bravo Bravo Ninà!" E con un risotto strabordante da mescolare in una pentola da 4. Risultato: una sbobba al radicchio (radicchio che m'ero fatta spedire dall'Italia, ché lì non si trovava, e loro che di risotto conoscevano solo il basmati lessato). Forse fu solo per queste ragioni che, comunque, si leccarono i baffi.
Delusa dalla mia ars coquinaria sotto stress, e chiedendo scusa al Dio dei Risotti, decisi di aspettar tempo ed esercitarmi in un risotto a settimana. Volevo la perfezione, quella del minuto esatto, della consistenza esatta, del giusto equilibrio di sapore, che sennò era sacrilegio, che di sbobbe e risi non mantecati non volevo più vederne sotto i miei occhi, nella mia pentola: insomma, la perfezione del
risotto verde e del suo creatore, di cui forse leggeste tempo fa (ed è lui che vi invito a invocare quando mantecate il vostro risotto perfetto).
Poi celiachia venne e risotto - per fortuna - rimase, e da lì l'apoteosi della mia ricerca.
Ricordo il
risotto alla polvere d'arancia e sedano che da
Cavoletto scoprii,
il risotto giallo alla liquirizia con cui festeggiammo l'anno nuovo, e la mia caparbietà e il mio fanatismo per i risotti crebbe e crebbe e crebbe.
L'ultimo risotto - da cui nacque il pensiero di questa fenomenologia di vita, come delle tappe di cui ricordo tutto - fu quello che mangiai al Maso, nel Trentino, poche settimane d'estate fa.
Un risotto fuori tempo, disse lui, alla Nina invitata a cena e pure "a nozze" dato il piatto a sorpresa che le fu così presentato: "Siccome
Nina aspetta la primavera quando è autunno, stasera per lei un
risotto alla zucca e funghi". E be', quanto mi piacque!
Dico piacere e non parlo (solo) di quello di gola, o di mélange di sapori da critica che non sono di cucina, ma di cura. Il riso, il risotto in particolare, ha bisogno di cura, di tempo, di armonia e di
senso; di chi lo mangerà di chi riconoscerà i sapori di chi non li riconoscerà ma li amerà.
Per questo forse io li ricordo tutti i risotti della mia vita, perché, come brodo e zafferano, il riso assorbe pure il tempo in cui l'hai preparato, il desiderio con cui hai mescolato, il primo assaggio di chi l'ha fatto per te. Come se ogni chicco fosse un messaggero.
Ora sta piovendo e pare autunno, io quel risotto alla zucca l'ho rifatto oggi, a onda, sparso sul piatto ogni forchetta gustata, ogni chicco ben tosto.
Magari un giorno esisterà un risotto all'aere d'estate, un risotto alla corteccia di gelso, un risotto all'aroma di iris, e ogni sapore come il succo di ciò che ti specchia, insomma come una tela dicevo, come un inchiostro.
E, mi dico, quella continua e caparbia ricerca affinché quella
cura sia perfetta, e quei chicchi siano abbracci stretti e raccontino bene il tuo messaggio, bello sarebbe se uno la facesse con ogni cosa a cui tiene della propria vita.
Oggi il tempo è di pioggia.
Sembra il giorno una sera,
sembra la primavera
un autunno, ed un gran vento devasta
l’arboscello che sta – e non pare – saldo.
(Umberto Saba)
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